mercoledì 5 dicembre 2018

Intervista allo storico Giancarlo Poidomani


Volti e testimonianze della Grande Guerra
Foto di Antonio Alecci

L’intervista al professor Poidomani ci ha affascinato a tal punto che abbiamo deciso di dedicare uno spazio considerevole a tre protagonisti della grande guerra, le cui vicissitudini sono ricostruite attraverso le lettere e i diari che sono stati pubblicati da Poidomani nel libro “Lutti e memorie dei siciliani nella Grande Guerra”. Due sono le considerazioni importanti a cui siamo giunti:
la prima è che dall’analisi delle loro lettere è possibile cogliere le diverse modalità di percezione della guerra legate all’ambiente familiare di provenienza, alle differenze socioeconomiche ed anche al ruolo che ricoprivano durante la guerra; la seconda considerazione riguarda invece l’enorme importanza della scrittura, non solo come mezzo di elaborazione dell’esperienza della guerra ma anche come fonte di consolazione sia per chi stava al fronte, sia per chi aspettava a casa notizie dei propri familiari.
Vincenzo Rabbito
Per quanto anonimo possa risuonare questo nome alle orecchie di molte persone, Vincenzo Rabbitosi scopre essere una figura che ha dato molto e che merita di essere conosciuto.
Egli era un contadino semi-analfabeta che “imparò” a suo modo la lettura e la scrittura dai quaderni e dai libri del fratello. Da contadino divenne soldato quando venne arruolato, insieme a molti altri, per far parte dell’esercito italiano per far fronte al primo conflitto mondiale, e come ci dirà lui stesso anche il secondo. Rabbito, come quasi tutti, durante il periodo fuori casa scriveva, lo faceva come poteva e come riusciva a fare, da ciò ha tirato fuori un diario reso pubblico venti anni dopo dal figlio,diario che è diventato “Terra matta”, un libro che tutti dovrebbero leggere, in cui egli racconta il suo punto di vista su quello che fu la grande guerra. Pur non contenendo un linguaggio aulico bensì un dialetto non privo di errori, riesce a trasmettere come poteva essere vissuta la guerra dal soldato semplice con tutto il corredo di paura, di voglia di scappare e disperazione nell’essere diventato la causa di morte per altri uomini. 
Giovanni Raffaele Salonia 
Fu un tenente dell'esercito italiano di provenienza modicana, che come Rabbito prese parte al primo conflitto mondiale. È necessario dire che grazie alle vicende di Salonia, e di tanti altri ragazzi che vissero esperienze simili, sappiamo che in quegli anni l'Esercito italiano era carente di ufficiali, per questo motivo si sentì la necessità di formarne di nuovi nel più breve tempo possibile. Così decine di migliaia di ragazzi vennero sottoposti a dei corsi accelerati della durata di due o tre mesi, che non sarebbero assolutamente stati sufficienti a prepararli realmente alla guerra. Inoltre, l'unica discriminante di selezione era l'appartenenza al ceto medio, e il conseguimento del diploma, o un titolo di studio superiore. Ciò in cui la testimonianza di Salonia differisce da quella di Rabbito è la tipologia. Essa, infatti, è costituita da un insieme di lettere e cartoline che lui e la sorella Aurora si scambiarono tra il 1914 e il 1918. Questo scambio epistolario è molto importante, perché ci consente di avere un'idea generale di quale fosse il rapporto tra il soldato al fronte e la famiglia, ma bisogna anche dire che Salonia, in realtà, non essendo un soldato semplice, bensì un tenente, fa trasparire chiaramente il fatto che lui riuscisse a trarre soddisfazione dalla carriera militare, grazie, per esempio, a momenti di svago  o a delle semplici passeggiate a cavallo. Inoltre, dato che le testimonianze di Salonia sono costituite da lettere e cartoline indirizzate alla famiglia, non abbiamo modo di sapere se ciò che scriveva venisse talvolta "filtrato", al fine di non causare timori nell'animo dei familiari. Per questo motivo si pensa che il racconto di Salonia, probabilmente, avrebbe avuto un carattere diverso, più oggettivo, più crudo magari, se si fosse trattato, ad esempio, di un semplice diario per se stesso. 
Un diario di prigionia: Virgilio Cannata
Foto di Antonio Alecci
Nel 1917 Virgilio Cannata scrisse nel suo diario ciò che accadeva ai prigionieri italiani destinati a morire di fame nei campi di concentramento. Durante la 1° guerra mondiale si sperimentarono le prime forme di detenzione di massa, costituita dai prigionieri di guerra. Tutti gli Stati  si trovarono quindi ad affrontare il problema della gestione di migliaia di persone alle quali finivano con l’inviare lo stretto necessario.
Nei campi di prigionia, i soldati per lenire la fame bevevano tanta acqua, mangiavano erba, terra, sassi, legno e carta con conseguenze letali. Al mattino bevevano caffè d’orzo, a cena e a pranzo minestra di acqua e qualche foglia di cavolo, una patata e una sola fetta di pane integrale per tutto il giorno. Ricevevano un’aringa e un  minuscolo pezzo di carne 2/3 volte la settimana. Per la fame i prigionieri vivevano in uno stato di semistupidità, non avevano la lucidità di chiedere nemmeno aiuto.
Il freddo in Austria e in Germania arrivava a – 29° gradi, loro vivevano in baracche, con una minuscola coperta, la divisa ridotta a stracci, le scarpe, distrutte dalle lunghe marce nei campi di concentramento, erano sostituite da calzature improvvisate. Tanto il freddo e la fame, la mattina molti di loro venivano trovati morti. Si verificava anche il congelamento degli arti che spesso bisognava amputare. Tra questi soldati italiani lasciati morire di fame e di malattie, ci fu pure il modicano Virgilio Cannata, nato a Catania il 24 aprile 1897 da genitori modicani; aveva studiato al Liceo classico Tommaso Campailla, partito come sottotenente e preso prigioniero il 26 ottobre 1917, morirà il 18 aprile 1918.
La storia drammatica dei prigionieri di guerra è stata molto trascurata, solo negli ultimi anni del  Novecento, la storiografia ha cominciato ad occuparsi di loro, insieme ai protagonisti non combattenti come le donne e i profughi.


Giorgio Petriglieri, Leonardo Rizza, Enrico Cannata- classe 5 S1