Bulli, c'è posta per voi!
Realizzato da Chiara Incatasciato - 3^ GR1 |
Era il mio
primo giorno di scuola, la mia mamma mi aveva preparato
il nuovo grembiule blu, che io adoravo tanto e non vedevo l’ora di indossare. Arrivato a scuola, i miei compagni di classe sembravano tranquilli, ma non era così. Passarono alcune settimane e io ero diventato il bersaglio su cui tirare aeroplanini di carta, matite, temperini, gomme, perfino portapenne. Era un incubo. Un giorno tornai a casa con un occhio viola e lo zaino pieno di biglietti con scritto: fai schifo, ma ti sei guardato allo specchio, ma da dove sei uscito, dal cesso? Da quel momento in poi, mi isolai da tutto, almeno così nessuno mi poteva dire niente. Ero grasso, è vero, ma loro si erano guardati? Passarono finalmente questi benedetti anni delle elementari. Avevo 11 anni e finalmente ero in prima media. Arrivato in classe, mi sedetti al mio banco senza dire niente. Dopo la prima ora di lezione volevo socializzare un po’, ma niente, completamente niente. Non era cambiato un bel niente dai tempi in cui erano i compagni delle elementari a deridermi. Ero sempre il bersaglio, ero colui che veniva insultato, minacciato e deriso. In quel momento pensavo che la mentalità delle persone non sarebbe cambiata mai. Dopo il primo anno, non me la sentivo più di andare a scuola, ma poi mi ricordai quanto volevo bene a mia mamma e che dovevo combattere per renderla orgogliosa di me. Appena cominciai la seconda media, sembrava che la situazione fosse cambiata, ma mi sbagliavo. All’uscita da scuola, mentre mi incamminavo per ritornare a casa, girato l'angolo, trovai 4 ragazzi che mi circondarono e incominciarono a tirarmi calci, pugni e poi mi trovai in una pozza di sangue, con la gente intorno a me che gridava: “Chiamate l’ambulanza, presto, chiamatela! C’è un ragazzo ferito!” Dopo non ricordo nient’altro che i medici che cercavano aiuto per portarmi di corsa in sala operatoria. Da quel momento andai in coma per ben 2 anni, finché una mattina mi svegliai esterrefatto con mia mamma che dormiva appoggiata al mio letto tenendomi la mano. La prima cosa, appena sveglio, fu gridare a squarciagola: “Mamma sono vivo! Mamma!” Mia mamma incredula mi abbracciò forte e mi disse: “Ti voglio bene”. I medici non credevano ancora che io fossi vivo. Sembrava tutto a posto, ma non era così. Quando avevo battuto la testa, la botta era stata così forte che mi aveva danneggiato il cervello, paralizzando tutta la parte destra del mio corpo e costringendomi, da quando avevo riaperto gli occhi, a restare sulla sedia a rotelle a vita. Dopo un po’ di tempo, i medici dissero che per fortuna la botta non aveva danneggiato la corteccia, permettendomi di ricordare tutto e poter andare a scuola, anche se ero ancora in sedie a rotelle, ma presto avrei cominciato la riabilitazione. Ormai avevo 14 anni e potevo andare alle superiori, ma prima dovevo essere sottoposto ad un test. Per fortuna lo superai e arrivò il tanto atteso momento. Mia madre mi vestì con uno dei miei vestiti preferiti e ci incamminammo. Mentre mi dirigevo in macchina verso la scuola, ripensai a tutte quelle cose che negli anni precedenti mi erano accadute. Da quel momento mi salì un’ansia tale che appena sceso non volli parlare con nessuno. Passarono alcune settimane e, come sempre, non mi ero sbagliato. I miei compagni cominciarono a insultarmi pesantemente, giustificandosi col fatto che stavano solo ironizzando; poi cominciarono a lanciarmi di qua e di là con la sedia come se fossi un pallone. Non potevo più vivere in un mondo così. Tanta la rabbia che mi accasciai per terra tremando e cercando aiuto. Vicino a me c’era un bidello che, vedendomi in quello stato, chiamò subito l’ambulanza. Arrivato in ospedale ripresi conoscenza e incominciai a piangere come non avevo mai fatto nella mia vita. Refertato e uscito dall’ospedale cercai in tutti i modi di togliermi la vita visto che in questo mondo crudele nessuno mi voleva. Tentai in tutti i modi, ma niente, tutti i tentativi fallivano, non avendo ancora la possibilità di muovere la mano destra. Arrivai all’età di 16 anni. Avevo ripreso a muovere un po’ la mano destra e appena ebbi la possibilità, mentre mia madre non c’era, con molta fatica cercai di uscire di casa e andare in un posto sperduto. Vidi un posto simile a un burrone, perfetto per il suicidio. C’era una trave e, oltrepassandola, si vedeva il vuoto. Mia madre tornando a casa e non trovandomi incominciò a cercarmi e mi trovò pericolante sopra la trave. Vedendola oltrepassai la trave senza pensare a quanto mia madre avrebbe potuto soffrire. Boom! Il nero più totale. A un certo punto sentii una voce che mi disse: “So quanto hai sofferto, qui ora sei al sicuro, nessuno ti può fare del male”. Ero in paradiso. Vidi uno schermo che proiettava quello che stava succedendo sulla terra. Mia madre era caduta in una depressione totale e questo mi faceva stare molto male. E ora voi, che mi avete portato alla morte, fate finta di piangere! A quanti sono presi dallo scoraggiamento voglio dire: “Non fate lo stesso sbaglio che ho commesso io. Combattete, lottate e non arrendetevi mai. Non pensate al pregiudizio degli altri. Non ascoltateli. Se avete qualche difetto, non siete diversi, siete speciali!”
il nuovo grembiule blu, che io adoravo tanto e non vedevo l’ora di indossare. Arrivato a scuola, i miei compagni di classe sembravano tranquilli, ma non era così. Passarono alcune settimane e io ero diventato il bersaglio su cui tirare aeroplanini di carta, matite, temperini, gomme, perfino portapenne. Era un incubo. Un giorno tornai a casa con un occhio viola e lo zaino pieno di biglietti con scritto: fai schifo, ma ti sei guardato allo specchio, ma da dove sei uscito, dal cesso? Da quel momento in poi, mi isolai da tutto, almeno così nessuno mi poteva dire niente. Ero grasso, è vero, ma loro si erano guardati? Passarono finalmente questi benedetti anni delle elementari. Avevo 11 anni e finalmente ero in prima media. Arrivato in classe, mi sedetti al mio banco senza dire niente. Dopo la prima ora di lezione volevo socializzare un po’, ma niente, completamente niente. Non era cambiato un bel niente dai tempi in cui erano i compagni delle elementari a deridermi. Ero sempre il bersaglio, ero colui che veniva insultato, minacciato e deriso. In quel momento pensavo che la mentalità delle persone non sarebbe cambiata mai. Dopo il primo anno, non me la sentivo più di andare a scuola, ma poi mi ricordai quanto volevo bene a mia mamma e che dovevo combattere per renderla orgogliosa di me. Appena cominciai la seconda media, sembrava che la situazione fosse cambiata, ma mi sbagliavo. All’uscita da scuola, mentre mi incamminavo per ritornare a casa, girato l'angolo, trovai 4 ragazzi che mi circondarono e incominciarono a tirarmi calci, pugni e poi mi trovai in una pozza di sangue, con la gente intorno a me che gridava: “Chiamate l’ambulanza, presto, chiamatela! C’è un ragazzo ferito!” Dopo non ricordo nient’altro che i medici che cercavano aiuto per portarmi di corsa in sala operatoria. Da quel momento andai in coma per ben 2 anni, finché una mattina mi svegliai esterrefatto con mia mamma che dormiva appoggiata al mio letto tenendomi la mano. La prima cosa, appena sveglio, fu gridare a squarciagola: “Mamma sono vivo! Mamma!” Mia mamma incredula mi abbracciò forte e mi disse: “Ti voglio bene”. I medici non credevano ancora che io fossi vivo. Sembrava tutto a posto, ma non era così. Quando avevo battuto la testa, la botta era stata così forte che mi aveva danneggiato il cervello, paralizzando tutta la parte destra del mio corpo e costringendomi, da quando avevo riaperto gli occhi, a restare sulla sedia a rotelle a vita. Dopo un po’ di tempo, i medici dissero che per fortuna la botta non aveva danneggiato la corteccia, permettendomi di ricordare tutto e poter andare a scuola, anche se ero ancora in sedie a rotelle, ma presto avrei cominciato la riabilitazione. Ormai avevo 14 anni e potevo andare alle superiori, ma prima dovevo essere sottoposto ad un test. Per fortuna lo superai e arrivò il tanto atteso momento. Mia madre mi vestì con uno dei miei vestiti preferiti e ci incamminammo. Mentre mi dirigevo in macchina verso la scuola, ripensai a tutte quelle cose che negli anni precedenti mi erano accadute. Da quel momento mi salì un’ansia tale che appena sceso non volli parlare con nessuno. Passarono alcune settimane e, come sempre, non mi ero sbagliato. I miei compagni cominciarono a insultarmi pesantemente, giustificandosi col fatto che stavano solo ironizzando; poi cominciarono a lanciarmi di qua e di là con la sedia come se fossi un pallone. Non potevo più vivere in un mondo così. Tanta la rabbia che mi accasciai per terra tremando e cercando aiuto. Vicino a me c’era un bidello che, vedendomi in quello stato, chiamò subito l’ambulanza. Arrivato in ospedale ripresi conoscenza e incominciai a piangere come non avevo mai fatto nella mia vita. Refertato e uscito dall’ospedale cercai in tutti i modi di togliermi la vita visto che in questo mondo crudele nessuno mi voleva. Tentai in tutti i modi, ma niente, tutti i tentativi fallivano, non avendo ancora la possibilità di muovere la mano destra. Arrivai all’età di 16 anni. Avevo ripreso a muovere un po’ la mano destra e appena ebbi la possibilità, mentre mia madre non c’era, con molta fatica cercai di uscire di casa e andare in un posto sperduto. Vidi un posto simile a un burrone, perfetto per il suicidio. C’era una trave e, oltrepassandola, si vedeva il vuoto. Mia madre tornando a casa e non trovandomi incominciò a cercarmi e mi trovò pericolante sopra la trave. Vedendola oltrepassai la trave senza pensare a quanto mia madre avrebbe potuto soffrire. Boom! Il nero più totale. A un certo punto sentii una voce che mi disse: “So quanto hai sofferto, qui ora sei al sicuro, nessuno ti può fare del male”. Ero in paradiso. Vidi uno schermo che proiettava quello che stava succedendo sulla terra. Mia madre era caduta in una depressione totale e questo mi faceva stare molto male. E ora voi, che mi avete portato alla morte, fate finta di piangere! A quanti sono presi dallo scoraggiamento voglio dire: “Non fate lo stesso sbaglio che ho commesso io. Combattete, lottate e non arrendetevi mai. Non pensate al pregiudizio degli altri. Non ascoltateli. Se avete qualche difetto, non siete diversi, siete speciali!”
Andrea Lo Presti – Classe 1^ T1