Vita
nei campi prima del trattore
Ho
espresso a mio nonno, Giovanni classe 1944, il desiderio di
intervistarlo convinto che mi avesse detto di no. Invece è stato
contento perché gli piace raccontare e soprattutto ricordare i
momenti di quando era piccolo. Ci siamo seduti l’uno accanto
all’altro, io ho iniziato con le mie domande e lui ha raccontato
nei minimi dettagli la vita nei campi quando non c’erano i
trattori.
“Quando
ero piccolo - racconta mio nonno - non sapevo, anzi, non avrei mai
potuto immaginare che un giorno sarebbero stati creati dei mezzi che
avrebbero sostituito l’asino con l’aratro. L’aratro era una
lama che entrava sotto terra scavando e rivoltando la terra; era
messo sull’asino grazie a due legni che gli venivano legati con una
corda che passava sul basto.
L’asino alcune volte non ce la faceva più, si coricava per terra e mi toccava aspettare fino a che non si era riposato un po’. Per seminare si utilizzava un sacco “a coffa” dove c’erano dentro i semi del grano “u frummientu”, dell’orzo “l’uoriu”, dell’avena o della veccia “a viccia”. Si prendeva un pugno di semi e si sparpagliava sul terreno più uniformemente possibile. Non era difficile, infatti io già a 9 anni andavo con mio padre a imparare come si faceva. Poi quando il raccolto era pronto, non si trebbiava come ora che basta una sola persona con la mietitrebbia per trebbiare un campo pieno di spighe di grano, ma si riunivano a volte 20 persone che tagliavano il grano con la falce “a fauci” e dopo averne tagliato un bel po’ lo attaccavano tutto insieme in un unico fascio “a regna”. Poi veniva pestato “pisato” dall’asino in un luogo molto alto dove c’era un pavimento di pietra “l’aria cca timpa” e una volta che il chicco del grano si era separato dalla paglia veniva pulito utilizzando il vento che soffiando portava via la polvere e lasciava il chicco pulito (“bruvuliari”). Una volta pulita, la paglia si dava ai vitelli e il grano si macinava per la farina”.
L’asino alcune volte non ce la faceva più, si coricava per terra e mi toccava aspettare fino a che non si era riposato un po’. Per seminare si utilizzava un sacco “a coffa” dove c’erano dentro i semi del grano “u frummientu”, dell’orzo “l’uoriu”, dell’avena o della veccia “a viccia”. Si prendeva un pugno di semi e si sparpagliava sul terreno più uniformemente possibile. Non era difficile, infatti io già a 9 anni andavo con mio padre a imparare come si faceva. Poi quando il raccolto era pronto, non si trebbiava come ora che basta una sola persona con la mietitrebbia per trebbiare un campo pieno di spighe di grano, ma si riunivano a volte 20 persone che tagliavano il grano con la falce “a fauci” e dopo averne tagliato un bel po’ lo attaccavano tutto insieme in un unico fascio “a regna”. Poi veniva pestato “pisato” dall’asino in un luogo molto alto dove c’era un pavimento di pietra “l’aria cca timpa” e una volta che il chicco del grano si era separato dalla paglia veniva pulito utilizzando il vento che soffiando portava via la polvere e lasciava il chicco pulito (“bruvuliari”). Una volta pulita, la paglia si dava ai vitelli e il grano si macinava per la farina”.
“In
quel tempo –dice ancora il nonno- era raro che qualcuno non avesse
animali o terreni ma quei pochi che non avevano animali o terreni
andavano a lavorare i campi delle altre persone. Una volta si
campava benissimo con così poco: chi aveva 20 o 30 mucche si sentiva
il padrone del mondo. Quando si vendeva un vitello per la famiglia
era una gioia perché si incassavano molti soldi al contrario di oggi
che quando si vende un vitello si riescono a coprire solo le spese
fatte per nutrirlo”.
Non
ha dubbi il nonno: “Ppi mia na vota si campava miegghiu”.
Rosario Paternò IIIS2 |